Bar e Dulcigno, antichi domini ottomani
  
  
    Dall'alto di una rupe la tetra e diroccata città-fortezza turca di "Nehaj" 
    guarda ancora l'inizio dei domini della "Sublime Porta". Oggi il confine
    non c'è più, ma ancora si sente, si annusa quell'atmosfera d'Oriente che man mano
    prende il sopravvento: una scritta in arbereh (albanese), la punta d'un minareto,
    il canto del muezzin. Il mare brilla in controluce dalla litoranea e nella grande
    rada della vecchia Antivari, da sempre porto delle partenze e degli arrivi, le navi
    appaiono e scompaiono mangiate dai riflessi, forse, dal tempo. Bar è una
    città-porto, il suo valore e il suo significato sta tutto qui. Per i mattoni rossi
    e la severa eleganza si fa notare solo la "Topolica", reggia del re Nicola
    e poi qualche monastero ortodosso, il resto è fatto da costruzioni recenti ai confini
    con lo squallore, pesante biglietto da visita quando si approda per la prima volta
    in Montenegro.
  
  
    Le radici della città sono distanti dal mare, si trovano a "Stari Bar"
    (vecchia Bar), un borgo medievale pressoché intatto e completamente abbandonato.
    Dall'alto del monte Rumija, il lungo braccio d'un acquedotto turco guida lo sguardo
    alla città fantasma le cui case spuntano appena mangiate da una fitta e verdissima
    vegetazione. Sulla costa da Bar a Dulcigno il paesaggio cambia completamente,
    le aspre e brulle montagne a picco sul mare si trasformano in dolci colline e poi
    in ampie pianure con laghi, paludi, piccoli fiumi ed estese spiagge arenose. Quanti
    ulivi! Migliaia di chiome d'argento mosse dal vento. Si devono ad una legge della
    Serenissima, che impose di piantare cinquanta alberi ad ogni giovanotto che volesse
    prendere moglie. E così, quegli alberi nodosi fanno parte integrante delle famiglie
    della costa, sono il loro sostentamento. E alcuni, gli ulivi più anziani, portano
    i nomi come i cristiani, anzi sarebbe meglio dire come i musulmani, che qui sono
    la maggioranza.
  
  
    L'olio di Dulcigno prendeva il mare per Trieste, Venezia, Roma, Il Cairo
    e la vicina Scutari per essere preziosa merce di scambio con le spezie d'Oriente.
    Ma non erano il commercio né la pur florida attività cantieristica le arti prevalenti
    degli abilissimi lupi di mare dulcignotti. Da quando queste terre caddero
    nelle mani turche (1571) e poi, dopo la guerra di Candia, con l'arrivo di ben quattrocento
    avanzi di galera scacciati da Malta, Tunisia e Algeria, Dulcigno divenne
    uno dei più celeberrimi covi di pirateria del basso Adriatico. Le veloci fuste,
    tartane, galeotte nascoste nella foce del fiume Bojana o tirate a secco lungo le
    spiagge del litorale divennero la spina nel fianco orientale del "Golfo di Venezia".
    Specialmente dopo la presa di Otranto, quando si chiusero i due battenti dell'Adriatico,
    non c'era convoglio o città costiera cui non venisse la tremarella al solo sentir
    parlare della filibusta dulcignotta. Una tortuga tanto indisciplinata da
    sfuggire anche al controllo degli ottomani, come nell' affaireLika Ceni,
    il pirata che non esitò a bruciare e colare a picco persino una galea piena di fedeli
    di Maometto in pellegrinaggio alla Città Santa. Vera e propria gatta da pelare per
    il sultano, che promise una montagna d'oro per la testa di chi aveva osato sfidare
    Allah. La ricchissima ricompensa non bastò, e con il passare del tempo, quando sui
    mari iniziò ad imperversare Lambro, un altro pirata d'origine greca, la "Sublime
      Porta" fu costretta, suo malgrado, a "porgere l'altra guancia", prendendo
    al suo servizio lo stesso Lika Ceni.
  
  
    Chiodo scaccia chiodo funzionò bene come in amore e così con un sanguinoso duello
    sui bastioni di Dulcigno, Lika Ceni uccise Lambro conquistandosi
    il perdono dei turchi e persino il titolo di kapudan (capitano). Sulle tracce
    degli antichi pirati una bella e limpida domenica mattina eccoci a Dulcigno.
    Tutti i negozi, i mercati e i bazar sono aperti perché i musulmani si riposano il
    venerdì. Qui sono in maggioranza con una forte componente albanese. Come in Alto
    Adige, in Italia, le scritte sono bilingue, nel nostro caso in albanese e serbo-croato,
    e a volte anche in cirillico. E mentre rimani con gli occhi puntati verso le alte
    cupole dei minareti e delle moschee, ce ne ne sono ben sei, la gente dalle vetrine
    dei bar e bifè, sorseggiando caffè turco, ti osserva attentamente, incuriosita,
    come se dovesse far rapporto a qualcuno. L'affollata e caotica strada principale
    porta all'insenatura di Mala plaza, cuore di Dulcigno, circondata dalle colline
    di PinjeS, Mendra e Bijela gora, dove si estende la città. Su quelle sabbie i pirati,
    rischiarati da alte lingue di fuoco dei falò, festeggiavano il ritorno dagli arrembaggi,
    dividevano il bottino, mentre in enormi pentoloni bolliva l'alva, una favolosa leccornia
    orientale. Gli schiavi e i neri si riunivano, invece, in una radura, che ancora
    oggi si chiama "campo arabo", sulla collina di Pinjes per danzare i loro
    balli rituali da cui si è sviluppata una vivace danza popolare detta siraveli:combinazione
    di melos e ritmi slavi, dulcignani e africani.
  
  
    Su una lunga scalinata che porta ai bastioni della città vecchia alcuni monelli
    giocano con una cima, la maneggiano con un'abilità da consumati marinai, rivelando
    la misteriosa quantità di iodio e sale nel loro codice genetico. Varcate le spesse
    mura medievali, sulle pietre delle strette viuzze del borgo antico sono impresse
    le tracce delle varie dominazioni: colonnine romane, leoni alati veneti dalla testa
    mozzata, mezzelune ottomane e poi dappertutto palle di cannone, rotonde testimoni
    di arrembaggi e cruente battaglie. Un minareto diroccato si lega, come formaggio
    e pere, ad una chiesa cristiana poi trasformata in moschea e oggi adibita a museo.
    Dietro c'è la Torre dei BalSié, la cupa prigione dove vennero rinchiusi lo scrittore
    spagnolo Cervantes e poi Sabetha Sebi (1626-1676) uno dei più noti
    ribelli della zona, promotore della riforma del talmud. Nelle stradine di
    Dulcigno sotto un enorme paio di corna di montone, che in Puglia si mettono
    a prua dei pescherecci per scacciare il malocchio, incontriamo Pepo Voljié curatore
    del museo etnografico. "Anche da noi le corna portano fortuna", dice Pepo,
    cogliendo la curiosità nel mio sguardo, "e poi, lì in alto, vede quelle pietre
      bucate? Servivano a far passare un asse che chiudeva contemporaneamente i battenti
      delle finestre. Di giorno si appendevano i pesci ad essiccare. Ma entrate, prego".
  
  
    "Ho voluto restaurare la mia dimora", riprende Pepo, mentre ci sediamo nel
    salotto su bassi e tipici divani contornati da coloratissimi arazzi alle pareti,
    "con lo stile ed i materiali tradizionali, primo fra tutti il legno, come può vedere
      negli intarsi del soffitto. La mia famiglia è qui da più di duecento anni: siamo
      arrivati dall'isola di Vranjina, nel lago di Scutari. Prima eravamo cattolici, ma
      poi ci siamo convertiti all'Islam (indica la foto di uno zio esponente di
    spicco dell'Unione Islamica), e fummo costretti a scappare per sfuggire alla vendetta
      di sangue, una tradizione purtroppo ancora viva in alcune parti dei Balcani albanesi.
      In pratica, si tratta di una specie di legge del taglione". Come vi trovate
    in Montenegro? "Bene.Ma noi siamo montenegrini...." "Che cosa prendete?"
    interrompe la madre di Pepo, una dolcissima nonnina albanese con il candido copricapo
    tutto ricamato, "Rakija, caffè, té, limonata?" La seguo in cucina, dove l'anziana
    signora si muove a dispetto degli anni con agilità da gazzella, indaffarata tra
    pani, focacce, pentole e sfrigolanti padelle da cui si solleva una leggera e speziata
    scia di fumo. "In questi giorni", spiega, "finisce il Ramadan, periodo
      durante il quale non si può mangiare né bere dall'alba al tramonto, ma solo pregare.
      Adesso siamo invece nel Bajram, ed è tempo di festeggiare. Abbiamo specialità
      di pesce come la kapama (pesce con verdura in olio d'oliva) o di carne come
        la tava (agnello con riso e verdura), lo japrak (carne macinata con
    riso, verdura e spezie awolte in foglie di vite), e poi verdura come le melanzane
      immerse nel latte acido.
  
  
    Infine, l'immancabile pita, una specie di focaccia al forno che va "innaffiata"
      con brodo di selvaggina. Ma vada di là adesso", mi dice, quasi fosse un po'
    indispettita da un'altra presenza nel suo regno di fornelli,"che insieme al caffè
      le faccio assaggiare i miei dolciumi: baklava, hurmašica, kadaif " . Le stuzzicanti
    ricette hanno fatto venir fame e in men che non si dica, salutata la famiglia Voljié,
    siamo a cena nella "Reggia dei BalSié", antico palazzo d'origine veneta.
    Sarà forse per i resti del vicino santuario di Artemide, dea della caccia, che qui
    troviamo molti stranieri i quali, in barba allo Stato Ecologico, vengono ad impallinare
    beccacce, starne e anatre a Scutari e nelle paludi vicine, veri paradisi per l'avifauna.
    A tavola, di fronte ad una superba spigola di mare che supera i quattro chili, si
    parla di pesci e di pesca. "Qui a Dulcigno ce ne sono moltissime",
    dice il cameriere, "e prima si esportavano in tutta l'ex Jugoslavia. Ma se vuole
      saperne di più, deve rivolgersi a Mario Skurla, grande pescatore di spigole e ultimo
      discendente di pelle nera dei pirati dulcignotti ". "Vede", continua,
    "fino al secolo scorso a Dulcigno c'erano ancora ben cento famiglie di neri.
      Oggi ne esiste solo una, rimasta l'ultima in tutta l'ex Jugoslavia. Come abbia conservato
      il colore della pelle e i caratteri somatici africani per quattrocento anni rimane
      un enigma". Solo Skurla può scioglierlo. Bisogna andare a trovarlo.
  
  
    Quasi al tramonto lasciamo Dulcigno per correre alle foce della Boiana dove
    si trova il casotto di pesca di Mario Skurla. Lungo la strada il paesaggio scorre
    piatto di campi coltivati che a quanto dicono danno dolcissimi meloni e arrivano
    quasi sulle sabbie della Copacabana jugoslava, la spiaggia Velika (lunga
    12,5 chilometri e larga più di 50), che d'estate assomiglia a Rimini, ma meno affollata
    e chiassosa della cittadina romagnola. Nel canale di Porto Milena, chiamato così
    in onore della regina del Montenegro moglie del re Nicola, le acque
    placide, pigre di giunchi, sono sezionate dalle kalimere, una specie di "trabucchi"
    o "bilance", fatte da lunghi bracci di legno protesi sul fiume a cui sono appese
    sottilissime e panciute reti penzolanti per pescare spigole e anguille. Dall'altro
    lato alte e bianche cataste dell'antico oro bianco indicano l'inizio delle enormi
    e secolari saline "Bajo Sekulic" di Dulcigno. Per arrivare a casa Skurla,
    che si trova nell'isola Ada al centro del fiume Bojana, bisogna attraversare un
    lungo ponte. L'isoletta, oggi paradiso per i naturisti, si formò per l'affondamento
    di un veliero che stanco di navigare andò ad arenarsi proprio al centro del fiume.
    Sull'uscio di casa giocano i figli di Mario, i lineamenti delicati dell'Africa del
    Nord, ma la pelle chiara della madre d'origine albanese. Il casotto, costruito sopra
    una specie di palafitta sul fiume con le reti appese al soffitto, sembra davvero
    quello di un film di pirati; all'interno ha un piccolo bar, ritrovo dei pescatori
    dove si respira la stessa atmosfera descritta da Hemingway nel famoso Sloppy]oe
    di Key West.
  
  
    Mario è seduto a un tavolino di fronte al mare: è proprio nero, "niro, niro, com'a
      che" direbbe la famosa canzone napoletana "Tamurriata nera"
    che da qualche minuto mi rimbomba in testa, donandomi un sorriso tra l'idiota e
    il compiaciuto. "Non mi dedico più alla pirateria", dice ridendo, "ma non
    ho perso l'amore per il navigare. Noi Skurla peschiamo alla foce della Bojana da
    generazioni. Mio padre provò a cambiare mestiere, fece il fotografo, ma andar per
    mare è come una maledizione, e io tornai a fare il pescatore come mio nonno. E pensare
    che adesso sono io che non voglio insegnare il mestiere a mio figlio di dieci anni.
    Ma lo vede lì fuori: monta gli ami, rattoppa le reti, salta da una barca all'altra
    come un pesce volante. Qui non si pesca più come una volta. Ricordo in un solo giorno
    duecentoquindici chili di spigole e poi tonni, lecce, ricciole: la piu grande sfiorava
    i cinquanta chili. Poi sono venuti a pescare con la dinamite dannazione!". Potremmo
    continuare a parlare per ore, ma lo interrompo. Come ti senti ad avere la pelle
    nera? "E come dovrei sentirmi, per me è stato un gran vantaggio perché da sempre
      sono appassionato di pallacanestro e prima giocavo nella squadra locale. Dei neri
      ho l'agilità che serviva ai miei avi negli abbordaggi delle navi. Non è questo che
      voleva sentirsi dire?" aggiunge ironico."Immagini che schiacciate a canestro!
        E poi, per il mio colore mi chiamavano l'americano", il Magie ]ohnson jugoslavo,
        una vera e propria celebrità. Ma guai ad andare in trasferta senza il certificato
        di nascita!".
  
  
    Nicolò Carnimeo
  
  
    Questo te lo avevano raccontato?
  
	      
        
        