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Sul Durtimor a Zabljak: armonia di uomo e natura

Zabljak, cittadina cuore del massiccio del Durmitor, non è ancora consapevole della spontanea eleganza, del semplice, ma raffinato fascino delle casette di legno disseminate sulle sponde del lago Nero, (Crno jezero) o perse nell'accogliente conca erbosa coronata dai monti. E come una Cortina d'Ampezzo che ancora non sa di esserlo! Si respira l'atmosfera delle Dolomiti negli anni Cinquanta quando su quelle montagne, lontane dai flussi turistici di massa, si potevano incontrare i primi appassionati rocciatori insieme ai pionieri della settimana bianca. Anche qui d'inverno, come a Sveti Stefan d'estate, sui campi da sci si riunisce la créme di Belgrado e Podgorica e sulla passeggiata che porta al lago fanno la loro comparsa gioielli e pellicce all'ultima moda sotto lo sguardo attonito di orsi e camosci. La bellezza e la forza della natura ti avvolge completamente in quest'angolo del Montenegro dove fauna e flora, protette in un grande parco nazionale, sono rimaste intatte. E se è pur vero che le nevi invernali ne fanno l'ideale scenario per una fiaba dei fratelli Grimm, solo la primavera può svelarne il caleidoscopio di profumi e colori: dalla fine di aprile a luglio si assiste allo spettacolo della fioritura, e il verde dei pascoli lascia il posto all'azzurro, al giallo, all'indaco di genziane, viole, anemoni e soldanelle.

Straordinaria guida per il massiccio del Durmitor e per tutte le Alpi Dinariche è Daniel Vincek. Polacco d'origine questo anziano signore per cui il tempo si è fermato (non lo confessa, ma pare abbia passato gli ottanta!) è uno studioso della flora montenegrina, e a Kolasin dove abita ha creato un prezioso orto botanico. Secco e ossuto come un'aringa, Daniel scala le montagne con l'agilità di uno stambecco. Stargli dietro è un'impresa, perché quando con aria ansimante ti stai ancora chiedendo quale sia il sentiero migliore, lo vedi già lontano, che sgambetta all'orizzonte, agitando l'inseparabile piccozza per incoraggiarti a seguirlo. Con Daniel partiamo alla scoperta del patrimonio naturale e umano dei monti montenegrini, pregno di una civiltà e di una saggezza millenaria che della capacità di sopravvivere ha fatto la sua principale virtù. Fierezza, orgoglio e ospitalità sono valori vivi di un mondo affascinante, ma destinato a scomparire così presto che pare dissolversi di fronte ai nostri occhi assetati d'esotismo come un evanescente arcobaleno.

L'alba è passata da poco, e su una piccola piana in cima al Bobotov Kuk il paesaggio si illumina pigramente. Una famiglia di montanari lascia il katun d'alta quota dove ha passato l'estate. Come in un quadro incorniciato dai monti e dalle nuvole del Durmitor, un carro trainato dai buoi con primitive ruote di legno si allontana per uno sconnesso. E' carico di materassi e vettovaglie: in cima spicca un arcolaio pazientemente intarsiato così come coppe, cucchiai e utensili che pendono ai lati appese come sonagli. Le grida e i secchi colpi di frusta del mandriano destano dal romantico stupore di quella scena . " Qui si può parlare di autarchia", inizia Daniel con leggero tono nasale che dona alle sue parole un tocco aristocratico, "perché gli abitanti delle montagne sono autosufficienti. Possiedono tutto tranne il sale, che un tempo venivano a barattare sulla costa. Il resto viene dalla foresta, dalla pastorizia da cui ricavano lana, latte e formaggio, dalle coltivazioni di patate o verdura strappate alle pietre e alla pendenza dei monti con miracolosi e geometrici terrazzamenti" . Le fatiche iniziano i primi di giugno, quando dai paesi le famiglie si trasferiscono sui katun di montagna. Viene organizzata una grande festa dove scorrono fiumi di rakija, si arrostisce carne d'agnello ed è l'occasione per scambiarsi consigli sui pascoli stringere accordi di collaborazione con i vicini. In segno d'amicizia si donano tre corone di margherite bianche, che vanno esposte per buon augurio sull'uscio di casa, della stalla e della "stanza dei formaggi" dove avviene la stagionatura. A fine agosto con i formaggi, la legna e le provviste si torna a casa.

"Alcuni pastori sino a qualche decennio fa", riprende Daniel, "avevano un curioso sistema per trasportare a valle gli enormi covoni di biada confezionati come provvista invernale per gli animali. Rimanevano sulle vette, sfidando il gelo, sino alle prime nevi, riparandosi in tipiche abitazioni coniche chiamate savardak, e poi si lasciavano scivolare sulle bianche coltri a cavallo degli stessi covoni che già venivano preparati dall' estate con due lunghe e levigate assi di legno sul fondo. Enormi slitte che arrivavano giù come proiettili!". Una musica lontana guida i nostri passi sino a un villaggio adagiato in una piccola valle. Dall'alto, tetti di lamiera luccicano sulle pietre dei kalun, dei muretti a secco che paiono costruiti senza impegno, a casaccio, come se l'uomo avesse timore di rompere l'armonia delle montagne,come se si fosse piegato alla natura senza provare né a batterla né a conviverci. Sarà questo il segreto? Nel silenzio dei monti, tra le casette, si parla a grande distanza: le parole s'incrociano spinte dall'eco e dal vento. C'è fermento per il nostro arrivo, viene subito imbandita una tavola e una piccola e allegra folla si riunisce intorno al desco. La cucina montenegrina delle montagne rispecchia il clima arido e le semplici tecnologie dei contadini esibendo la sua bravura dove può e non dove vuole. Il latte, i latticini, il kajmak, una specie di panna acida che può considerarsi lo yogurt locale, insieme con il kacamak, polenta di granturco con formaggio, sono il pasto quotidiano. Solo qualche erbetta selvatica rinfresca e vitaminizza la povera quotidianità.

Le patate sono entrate a far parte delle pietanze d'uso comune solo nel secolo scorso e si chiamano "russe" perché vennero portate in Montenegro dalle steppe moscovite dal vladika Pietro I per sollevare la popolazione da una terribile carestia di granturco che in un solo anno provocò la morte di ventimila persone. La carne è conservata per le feste o per gli ospiti, perché l'ospitalità è sacra e nel Montenegro la tavola dell'ospite non è certo quella di ogni giorno. Non si conoscono dolci tranne fichi secchi e miele selvatico. L'unico lusso consiste nell' ukljala: piccoli pesci del lago di Scutari affumicati. Pur lontani da ogni elaborazione e raffinatezza qui si ritrova la memoria perduta della povertà che nasconde una straordinaria ricchezza di profumi e gusti altrove ormai spariti. Nei piatti, tuttora, si ritrova l'eccesso delle porzioni abbondanti e del grasso a compensare la memoria di una miseria non ancora perduta. Abbuffare l'ospite con ciò che offre la casa è quasi un obbligo ma, nel modo di porgere o di trattare a tavola, è presente ancora una certa ingenuità costituita dal desiderio di saziarti più che di compiacerti, qualcosa di più tenero che volgare, di più genuino che furbo, teneri residui d'innocenza. La festa in nostro onore si prolunga sino a sera. Sediamo intorno al fuoco di due enormi falò allietati dal suono del gusle, ma canti, danze e risa vengono bruscamente interrotti da un gruppo di giovani che campeggiano poco distante. Qualcuno ha portato lo stereo. I Rolling Stones squassano la quiete notturna dalle immote alture montenegrine. Lunghe ombre nere s'allungano al chiarore della fiamma.

Nicolò Carnimeo
Giornalista

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